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Di viole e liquirizia

Nico Orengo
“… si disse che era quasi finita ma che doveva aspettarsi ancora un colpo di coda. Si disse che quello che qualcuno stava posando sul vassoio d’argento era l’ultimo bicchiere della mattinata. Lo guardò, come fa il toro con la veronica, e cominciò a studiarlo: il colore era cupo, di mattone molto cotto. Pensò ad una terra senza arenaria o pietra. Dove lo stava portando, Baravalle?

Daniel avvicinò il bicchiere al naso. Sentì immediatamente un profumo primaverile: ancora viole, ma scure, e poi ciliegie, le “maroda”, e poi rose sfatte e fumo di falò e anche castagne bianche, quelle che si mangiano nei giorni dei morti. Ma c’era dell’altro, e Daniel lo diceva con voce chiara, mano a mano che gli veniva fra lingua e palato: c’è sabbia e conchiglie, sabbia e conchiglie di mari caldi, subtropicali. Poi riflettendo dentro di sé disse: “Non è da terra di Barolo, niente marna blu, non di Barbaresco, con marna bianca. Qui c’è sabbia, siamo in terra di Roero. Ecco dove mi ha portato il Baravalle, ecco quel colore di mattone da fornace. Siamo fra Ceresole e Canale?”
Daniel lasciò entrare a intervalli un paio di sorsi, gonfiò le gote e cercò il sapore di pesca. C’era, insieme a quello di liquirizia, all’amalgama di frutta rossa, matura, impastata di sabbia di conchiglie. Aveva un gusto ampio, complesso, aristocratico, che chiudeva in tannino dolce e carezzevole. Era un vino che aveva avuto la giusta acqua, un po’ di neve, il tepore in primavera, il caldo luminoso dell’estate e un piacevole autunno: una fortunata evoluzione
Un vino drammatico, mediterraneo, epico, – disse Daniel, – così l’ho sentito definire questo vino, che ho bevuto una volta sola ma che credo di poter riconoscere in un Roche d’Ampsej del 1996, di Matteo Correggia, uno dei più grandi vignaioli – posso dirlo? – del Novecento.
Daniel aveva posato il bicchiere mentre arrivava un applauso.”

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La Barbera è femmina

Marzia Pinotti

Marun 1998

La giornata era stata perfetta, l’accoglienza squisita, la conversazione illuminante. Quella sera tornai a casa galvanizzata, con la conchiglia al sicuro in una scatoletta, e un’immagine del tutto nuova dell’oggetto delle mie ricerche.

Ero anche molto curiosa di scoprire cosa contenesse il cartone che Luca aveva preventivamente sigillato, prima di riporlo nel bagagliaio della mia auto: al mio sguardo interrogativo, aveva risposto con un sorrisetto compiaciuto, come a dire “Sorpresa”.
Così, una volta a casa lo appoggiai sul tavolo della cucina, e armata di taglierino, lo aprii con la stessa impazienza con cui si scarta un regalo di Natale: all’interno coricata sul fondo, c’era una bottiglia di Marun 1998, coperta dalla polvere del tempo. Trasalii.
Quello era l’ultimo Marun di Matteo, l’ultimo figlio interamente suo, prima dell’arrivo di Luca in azienda.
Quella era proprio la sua voce. L’assolo racchiuso in una bottiglia. All’interno trovai un biglietto che recitava:
“Se hai fortuna, e il tappo non è traditore, sentirai tanto Roero nel bicchiere, e capirai che nel libro uno spazio suo è meritato. Nell’evoluzione dei vini in bottiglia, infatti, penso che nel bicchiere percepirai, nei primi 4 – 7 anni, territorio, vitigno e stile; tra i 7 e 12 anni territorio e vitigno; oltre quel punto solo il territorio. Perché le differenze tra un vitigno e l’altro si affievoliscono fino a sparire. Il territorio, se è grande, vince su tutto.”
Una barbera di 16 anni. L’incontro era arrivato in modo del tutto casuale ed inaspettato. Una felice coincidenza, continuavo a ripetermi, ma in realtà c’era qualcosa in quella bottiglia che mi turbava profondamente. Sera dopo sera, la fissavo con preoccupazione, ripetendomi che il momento giusto non era ancora arrivato, ma in cuor mio, mi chiedevo se l’avrei mai aperta. La mia non era paura, solo una forma di reverenziale pudore nei confronti di quell’uomo che non avevo avuto occasione di conoscere. Mi ci volle un mese per decidermi ad aprirla, accettando il rischio di non essere pronta a farmi raccontare dallo stesso Matteo quale fosse la sua interpretazione della Barbera. Qual era l’immagine di lei che aveva abitato i suoi sogni? Qual era il messaggio che aveva voluto affidare a quella bottiglia, consegnandola nelle mani di chi, come me, l’avrebbe ritrovato molti anni più tardi?

Marun 1998. Un granato fitto nel bicchiere – quello sì atteso – e una compostezza che lo distingueva in modo assoluto dalla strabordante sensualità della Bigolla. Niente curve morbide. Niente trucco pesante. Solo pura seduzione, fatta di sguardi e di silenzi. Ad ogni giro nel bicchiere, dopo un veloce cambio d’abito, Marun indossava con disinvoltura un nuovo profumo, nitido e sempre diverso. Viola appassita. Pesca al forno. Mora matura di fine agosto che esplode di dolcezza. Pepe nero. Tabacco. Fava di cacao. Fugace nota balsamica. Peperone giallo. La dea che si spoglia dei veli e rimane nuda, nella propria compostezza. Ecco lo spettro che Marun aveva da offrire: un numero finito di infinita persistenza. In bocca, ritrovai lo stesso rigore. Non era un vino che voleva sorprendere. Era un vino di raro nitore, pervaso di sobria eleganza. Caldo. Fresco. Sapido. Morbidissimo. Di una lunghezza e di un equilibrio impressionanti. La barbera che aveva immaginato Matteo ricordava una Jeanne Moreau in bianco e nero. Una di quelle bellezze disarmanti, non più giovanissime, con cui il Tempo era stato estremamente clemente.

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